giovedì 4 novembre 2021

Le domande...


Una delle cose più importanti del mondo odierno è la comunicazione, allo stesso modo, in una sessione di coaching strategico, il comunicare e il come farlo sono i  pilastri del processo. Cosa ci sia alla base di questo procedimento non è una cosa astrusa, anzi... Provate a pensare a cosa possa essere, forza... E' semplicissimo a dirsi, un pò meno da mettere in pratica per ottenere dei risultati... Vi svelo l'arcano. LE DOMANDE. 

Il processo di convincimento più potente che un coach abbia a disposizione è semplicemente porre delle domande. Nei secoli, i quesiti hanno fatto in modo che ci evolvessimo, gli interrogativi  hanno portato a nuove scoperte. Una lettura semplicistica di ciò, farebbe affermare che avremmo  trovato la soluzione a tutti i casi di coaching, invece no, perchè le domande poste con certe modalità potrebbero anche non facilitare ma peggiorare in modo abnorme le cose. "Non sono le risposte a creare dei problemi ma sono le domande che le creano" (cit. Kant) ma sono le stesse domande però che portano alla soluzione. Nella quotidianità così come nelle sessioni di coaching, la qualità del rapporto è data anche dal tipo di domande e dal come vengono formulate. In un contesto del genere, anche il coach deve avere l'abilità di porre quesiti o magari di riformularli  nel caso in cui ricevesse una risposta che all'apparenza non gli fosse d'aiuto, al contempo facendo attenzione a non giudicarla. Un bravo Coach deve imparare a fare le domande con un certo criterio, con una determinata sequenza e forma fino a quando poi non gli diventerà spontaneo farlo. Gli interrogativi vanno posti strategicamente cioè devono avere un obiettivo da raggiungere. La distanza che intercorre tra la domanda e l'obiettivo è coperta dalla strategia. Le domande, sembrerà banale, devono essere poste in modo facile ma questo processo di semplificazione è difficile da compiersi perchè attraverso esso già si avvia un percorso di Problem Solving, quindi fare buone domande significa fare domande semplici, costruite bene e di facile comprensione. Ce ne sono di diversi tipi:

  • aperte. Sono quelle che lasciano al coachee ampio campo di risposta. Esempio: "Cos'è successo?"; "Cos'hai fatto per...?  Le domande aperte, generalmente vengono fatte all'inizio della sessione e servono anche per rompere il ghiaccio e creare relazione. 
  • chiuse. Sono quelle che ammettono come risposte solo: si o no. Esempio: "Ti sei allenato?", "Hai parlato col Mister?". Questo, è un tipo di domanda che non amo tanto perchè può mettere in difficoltà il coachee e può compromettere la relazione tra di noi.
  • alternativa di risposta. Sono quelle che in qualche modo avviano, in parte, il coachee verso la risposta pur lasciandogli la piena autonomia nel farlo. Esempio: "Quell'azione, ti capita di farla in allenamento o solo in partita?". "Protesti verso l'arbitro quando subisci fallo tu oppure anche quando sono i tuoi compagni di squadra a riceverli?". 
Lo comunicazione è come una danza tra domanda e risposta (cit. prof. Nardone). Io aggiungo che una danza armoniosa prevede passi  studiati che diventano facili, quindi domande semplici e ben strutturate

Ciro Di Palma - Sport Mental Coach -


venerdì 3 settembre 2021

Il Modello di Coaching che vince... (mah?)


E' trascorso ormai un mese dalla fine dei giochi olimpici e tutti adesso hanno scoperto il "Mental Coach Sportivo". Si potrebbe parlare per ore di questa figura ma preferisco invece argomentare tra le pieghe dei 
modelli di coaching che esistono. Premetto, NON ESISTE IL MODELLO VINCENTE ma è l'atleta o la squadra che raggiungendo il risultato lo definisce tale al momento. Vale anche la pena precisare che solo alcuni sono validati scientificamente (per esempio, SFERA e STRATEGICO) ed altri no (PNL). Probabilmente sarebbe più corretto parlare di approccio e non di modello perchè ogni coach tende a personalizzare un approccio facendolo diventare poi un suo modello. Dopo aver letto e studiato, mi sono accorto che gli approcci vengono molto influenzati dalla cultura del luogo in cui nascono. Quelli inglesi, per esempio sono più soft e più orientati verso il formulare delle domande; quelli americani, molto caratterizzati dalla centralità assoluta della motivazione, della volontà della persona e del "se vuoi, puoi!!!". Si vedrà, poi che non è sempre così, anche se alla quasi totalità degli atleti, dei managers e delle persone in generale, piace sentirselo dire ma anche ai coach farlo credere. Cosa può ancora influenzare un metodo? Sicuramente il coach stesso: la sua etica, le sue scelte, il suo modo di agire e di porsi con le persone ma anche il suo linguaggio verbale e non verbale, persino il suo idioma, si perchè alcuni giochi di parole sono validi ed hanno un certo appeal solo se usati nella lingua originale e difficilissimi da applicare se tradotti da altre. Nell'elenco che segue, ci sono diversi tipi di modelli di coaching:

    • A5;
    • O.R.D.E.R .:
    • G.R.O.W. ;
    • STRATEGICO;
    • S.F.E.R.A. ;
    • ONTOLOGICO;
    • UMANISTICO;
    • P.N.L. :
    • R.A.D.A.R. ;
    • G.R.O.W. Expanded;
... e ancora tanti altri se ci mettessimo a cercare... .
Come orientarsi in questo mare magnum di approcci? Molto semplice: leggere, informarsi, studiare. Banale? Forse ma è una delle poche soluzioni. E' difficile prendere una direzione perchè le varie scuole di coaching puntano a indirizzare l'aspirante coach unicamente verso di loro (un cliente in più). Naturalmente la differenza la fa la voglia della persona che vuole completare il proprio bagaglio di competenze per poi fare le sue valutazioni.
Fondamentalmente ma semplifico molto, di un modello bisognerebbe capire quale sia il protocollo e quali le sequenze logiche insite. Molto importante inoltre, sarebbe carpirne la flessibilità applicativa verso i casi ma anche verso i coachee al contempo valutandone la rigorosità metodologica. Un fattore da non sottovalutare e per me importante, è la gestione delle resistenze nei vari modelli (in taluni mancano proprio gli strumenti atti a farlo). Ricordando sempre che tante volte la logica non è sempre lineare e quindi dire non significa poi far agire, anche se il coachee è sembrato assolutamente concorde.
Allora, il modello vincente qual'è?
Semplicemente, in partenza, non esiste un modello vincente.



sabato 31 luglio 2021

Alta Performance e Picco di Prestazione... Quale delle due?

Sgombriamo subito la mente da strani pensieri. Nel mondo sportivo, senza un certo tipo di allenamento e cioè del ripetersi di certi movimenti, gesti, situazioni ma anche di strategie e metodologie da poter poi riportare in gara al momento giusto, sarà molto difficile raggiungere certi livelli e certe performance (ricordiamo anche che il riposo è parte integrante dell'allenamento).

Analizziamo la parola PERFORMANCE, essa deriva dal latino performare cioè dare una forma. "Otterremo una certa performance quando avremo dato una determinata forma alla nostra prestazione" (cit. Stefano Bartoli).

Un'alta prestazione, che è diversa dal picco di performance, può verificarsi raramente come colpo di fortuna; il nostro obiettivo quindi, sarà quello di alzare il livello in modo graduale e continuo in modo da acquisirla. Questo avverrà solo e soltanto con l'allenamento. Anche qui però c'è da fare alcuni distinguo perchè certe modalità di preparazione  possono anche non portare alla performance (overtraining).

Alta prestazione, picco di prestazione... Ma cosa sono in realtà? Per farla semplice ma facile non è, possiamo dire che un campionato si può vincere con un'alta performance e la singola partita con un picco di performance, tenendo sempre presente però che l'una non esclude l'altra.

Faccio un caso personale, tempo fa, da amatore, correvo le maratone e allenadomi in un certo modo riuscii, in qualche anno, a portare il mio tempo da 3h 00' a 2h 43', quindi ad avere un'alta performance (guardatela sempre nell'ottica di livello amatoriale), diverso il discorso invece nella 24h di corsa nella quale ebbi un picco di prestazione (217km) che mai prima avevo sfiorato e che mai più in seguito avrei ribadito. Accadde che per tutta una serie di motivazioni (qualificazione per i campionati mondiali di specialità, presenza dei vertici federali, tifosi al seguito e ottimo allenamento svolto) probabilmente ebbi una visione distorta e diversa del momento che mi fece andare oltre quello che presumibilmente veramente valevo nella realtà. Possiamo dire quindi che il picco di performance è solo di un momento, solo di una gara? Probabilmente, si e può definirsi un effetto.  Se all'epoca avessi avuto un Mental Coach Sportivo, probabilmente non avrei fatto tutta una serie di errori dopo, quando convinto di me, supportato dai tecnici e dall'opinione pubblica, nello sforzo di ripetere quella prestazione, continuai sempre ad incappare nelle stesse tentate soluzioni disfunzionali. Paradossalmente più mi allenavo e più inibivo la possibilità di avere un'alta performance, lasciando quei 217km come apice mai più raggiunto. 

Un atleta di livello ma anche una qualsiasi altra persona e in qualunque altro ambito, dovrà perciò puntare mai al picco di prestazione (se non in determinati momenti) bensì all'alta prestazione.

Questa avrà un effetto, verosimilmente più lungo nel tempo, la si potrà allenare e organizzare in base alle qualità del singolo e per qualità non intendo solo quelle atletico - fisiche ma anche relazionali, mentali ed emotive. Creerà essa stessa un equilibrio diventando una dinamica con la quale affrontare le gare e non sarà più una rottura di un omeostasi e/o un effetto a certe situazioni. Tutto ciò l'ho vissuto sulla mia pelle.

Se ti va, leggi anche questo altro articolo molto interessante:

La Performance, la Motivazione e il Coaching Strategico.


mercoledì 30 giugno 2021

Coaching o Formazione?


Prima di cominciare, è doveroso e rispettoso ringraziare Fym, Scuola Coaching e Formazione Formatori, dalla quale ho preso i tre schemi che vedrete in seguito.

In questi ultimi anni ho avuto la fortuna di confrontarmi con diverse persone che ruotano del "variegato" mondo del coaching: coach, coachee, giornalisti, sportivi, manager, dirigenti e tantissimi altri. Ho notato però una grandissima confusione su un tema: Coaching e Formazione. Si, perchè in gran parte di queste persone, è radicata l'idea che possano essere la stessa cosa invece sono due materie molto diverse tra loro. Non molto tempo fa un manager di una multinazionale mi disse:" Abbiamo dovuto licenziare un coach che, erogando la sua formazione, non ha motivato il gruppo e non ha raggiunto gli obiettivi che aveva dichiarato in fase di assunzione". Ascoltando queste parole, un brivido mi ha percorso la schiena perchè non condividevo, in linea di massima, quello che udivo.

Punto uno, il Coach non è un Formatore (può anche esserlo, se non  in qualche sporadico caso);

Punto due, il Coach non è un Motivatore (anche qui, lavorare sulla motivazione può essere però dopo aver fatto alcuni passi...);

Punto tre, un coach non dichiara gli obiettivi ("Vi farò raggiungere questi risultati...").

Per spiegare meglio il concetto, uso uno schema che la scuola di Coaching e Formazione formatori Fym ha creato all'uopo ed in relazione anche ad altre tipologie d'intervento.



In questo riquadro è stata fatta la distinzione: gruppo (one to few / one to many) - individuo (one to one) e apprendimento emotivo - apprendimento cognitivo. Nascono così quattro quadranti con cinque tipologie d'intervento, naturalmente tutte diverse tra di loro.

Balza subito all'occhio come la formazione venga rivolta a gruppi di persone più o meno numerosi (non escludendola in taluni rari casi anche per singoli) ma la cosa importante da tenere in considerazione è che siamo nel campo dell'apprendimento cognitivo, quindi il formatore deve spiegare e farlo bene inoltre deve far in modo che ciò che dice debba essere compreso. Quindi un Formatore ha una  responsabilità didattica, quella che un Coach non ha. La formazione poi agisce sullo sviluppo delle competenze (skill based) con un gruppo magari ridotto oppure sull'implementazione delle conoscenze (knoledge based) con un gruppo più numeroso, il Coaching, invece si occupa di performance.
Guardando sempre lo schema riportato si nota come il Coaching sia proprio agli antipodi della Formazione. E' direzionato all'apprendimento emotivo (Modello Strategico) cioè orientato al "sentire dentro" ed è rivolto al singolo o talvolta a piccoli gruppi. Possiamo quindi asserire che il Coach non spiega, il Formatore si. La responsabilità del Coach è più sul cambiamento che sull'apprendimento e queste cose generalmente non coincidono. A conferma di ciò anche il prof. Nardone asserisce che non sempre all'apprendimento corrisponda un cambiamento.
Il futuro, secondo me, va verso la creazione di una figura totale capace di gestire sia l'apprendimento che il cambiamento perchè il mutamento può anche avvenire attraverso l'acquisizione  oppure derivare da attività di coaching. Le due azioni, quindi, possono combinarsi ma sempre in direzione degli obiettivi di performance del coachee (sportivi, lavorativi o personali).
Concludo riportando due schemi che sintetizzano ciò che ho scritto, nei quali sono anche ben in vista i punti di forza e di debolezza di entrambe le figure.















lunedì 3 maggio 2021

Lavorare sull'AUTOSTIMA... Una boiata sesquipedale!!!

Leggendo, anche distrattamente, articoli che trattano di sport, di grandi traguardi raggiunti, ci siamo sicuramente imbattuti in una parolina magica... AUTOSTIMA. Tutti o quasi, chi più, chi meno, si sono abbeverati a questa fonte miracolosa che fa cogliere risultati sorprendenti e clamorosi. Ecco allora presentarsi al nostro cospetto quelli furbi, quelli scaltri, quelli che mercanteggiano aria, quelli che riescono a vendere il ghiaccio agli eschimesi, quelli che, appunto ci propongono di lavorare sull'autostima per migliorare le nostre performance fino a raggiungere anelati e ambiziosi  traguardi. Fiumi di parole ma per descrivere cosa? Per fare che? Secondo me, per descrivere il niente e per fare ancora meno; solo arricchire le loro tasche!!! Frequentando il mondo dello sport, prima da atleta, poi da istruttore e infine da mental coach, ho avuto modo d'incontrare e di confrontarmi con diversi personaggi (dirigenti, atleti, allenatori, giornalisti, editori, manager) ma quelli veramente al top, i numeri uno, MAI hanno dichiarato che, per arrivare dove sono, abbiano  lavorato nello specifico sull'autostima. Avete mai sentito Nadal affermare che per vincere i suoi tredici Rolland Garros abbia avuto bisogno di autostima?   E Hamilton per affermarsi nei suoi suoi sette mondiali di Formula 1?  E Valentino Rossi per tutta la sua straordinaria carriera? MAI!!! Chi parla di ciò è generalmente e evidentemente qualcuno che tenta di arrivare a un traguardo aggrappandosi a qualcosa che fa figo (AUTOSTIMA) facendo ascoltare alla gente delle belle e pompose parole magiche. Lavorare sull'autostima, per me, non significa niente. Chi lavora nel mondo della performance deve essere in grado di capire quali sono le strutture, quindi le dinamiche e quali sono gli effetti  da queste generati. L'autostima è semplicemente un effetto e lavorare su ciò non produce alcun  risultato anzi diventa una chimera, un obiettivo irragiungibile perchè è un processo senza fine. Non si arriva ad ottenerla e poi ci si ferma, è una continua evoluzione, appunto è un effetto; quindi non ragioniamo in termini di autostima ma mutiamo il concetto in:"Cosa posso fare per migliorarmi?". Cominciamo così a lavorare su noi stessi, a coltivare le nostre risorse, il che significa allenare a sviluppare il talento che abbiamo, a sbloccare quelle abilità che si sono arrestate, studiare, leggere e fare esperienza. Seguendo questa rotta, alimentando questo modus operandi, automaticamente si genererà  autostima e nel momento in cui l'avremo non ci chiederemo più se ne siamo dotati o meno. Ho provato ad inserire in un motore di ricerca la parolina in questione, in un attimo è venuto fuori il circo equestre... "Come aumentare l'autostima", "Le regole  per accrescere l'autostima", "I modi per avere più fiducia in se stessi", alla lettura di tutto ciò sono rimasto letteralmente basito (ripeto, questa è la mia personale visione dell'argomento). Il mio pensiero è che lavorarci su non significhi generarla anzi potrebbe addirittura divenire un grande limite e creare scoramento per il semplice motivo che se non si raggiungesse il risultato sperato, l'atleta crederebbe di non esserne in possesso o di non essere capace andando poi ad avviare un corto circuito.  Chi invece avrà fatto le cose in maniera diversa invece penserà solo a come potersi  migliore quotidianamente (toh, eccola qui l'autostima). Mi piace ricordare che quando un atleta o un qualsiasi performer è  "nella prestazione", non è nella sua forma mentis valutare al momento la propria autostima ma, i quegli attimi penserà solo:"Mi sono allenato, sono pronto? Allora faccio del mio meglio!!!" . Una volta fatto il suo meglio, proverà in futuro ancora a incrementare la sua performance. NON E' L'AUTOSTIMA CHE FA PERFORMARE MEGLIO MA E' IL PERFORMARE MEGLIO CHE GENERA AUTOSTIMA e chi raggiunge certi risultati non dirà mai che ne è dotato perchè è focalizzato al miglioramento continuo. L'AUTOSTIMA NON E' LA CAUSA DEL BUON RISULTATO MA E' SEMPLICEMENTE L'EFFETTO e noi andremo a lavorare, in primis su quello che potrà determinare l'esito di un evento.

domenica 4 aprile 2021

Dentro la Comunicazione Non Verbale

Continuando il discorso intrapreso nell'ultimo articolo, mi soffermerò su alcune particolarità della Comunicazione e in particolare di quella Non Verbale.
 L'efficacia di un messaggio è influenzata, in percentuali diverse, dai tre canali della comunicazione:
  • 7% verbale, il contenuto nudo e crudo, la trascrizione fedele di ciò che si dice, senza punteggiatura;
  • 38% paraverbale, (para, significa informo) tutto quello che è intorno alle parole: volume , intensità, timbro, pause, ecc.;
  • 55% linguaggio del corpo, quello che vedono gli occhi.
Paraverbale e linguaggio del corpo compongono il non verbale. Una precisazione importante, le percentuali non sono il quanto comunichiamo attraverso i canali ma la loro influenza all'interno della comunicazione; naturalmente nel discorso deve essere presente un contenuto emotivo.
Se voglio avere una comunicazione efficace, devo fare in modo che il paraverbale e il linguaggio del corpo vadano nella stessa direzione della comunicazione verbale.
Non si può non comunicare (primo assioma della comunicazione - Paul Watzlawick, scuola di Palo Alto, California), ogni gesto è un atto di comunicazione interna o esterna. Ogni comportamento comunica qualcosa dal momento in cui non esiste un non comportamento;
Il corpo esprime (quasi) sempre la verità, dipende da noi riuscire ad osservarla o meno. Il fatto che esistano dei segnali del corpo non basta, la cosa importante è identificarli. Ho messo tra parentesi il "quasi" perché possono essere presenti dei segnali che col tempo sono entrati a fare parte della linea base della persona e quindi presenti sempre in tutti i discorsi, questo potrebbe essere fuorviante;
La Comunicazione Non Verbale è analogica. Significa che certi segnali sono quelli che analogicamente rappresentano un qualcosa. Esempio, una persona che mette un libro, un  quaderno o quant'altro tra le braccia per riparare il petto o altri punti vulnerabili del corpo, tecnicamente chiusura analogica. Questo non significa comunque in assoluto chiusura e poi ammesso che lo fosse, ciò non implica che non si possa trattare con una persona "chiusa". 
I segnali del corpo col tempo si evolvono perché la persona che da piccola reagiva in un modo, crescendo avrà più "armi" per dissimulare.
Fattori importantissimi per come leggere la Comunicazione non Verbale sono: il tener conto del contesto in cui essa avviene, valutare l'insieme dei segnali e la coerenza (allineamento tra verbale e non verbale).
La Comunicazione Non Verbale e i segnali che ci dà possono avere degli effetti oppure degli obiettivi:
  1. Rinforzare un messaggio, Non verbale e Verbale sono congruenti;
  2. Contraddire un messaggio, Non Verbale e Verbale sono incongruenti;
  3. Sostituire un messaggio, Non verbale presente e Verbale assente.
Ci sono altri elementi che la Comunicazione Non Verbale potrebbe fornire, sono i segnali rivelatori e quelli di falso.
  • Segnali di rivelatori di sensazioni (rifiuto, tensione o gradimento) oppure di emozioni (microespressioni);
  • Segnali di falso, quando notiamo questi messaggi non è sempre vero che l'altro stia mentendo.
Esistono due tipologie di Comunicazione, quella volontaria e quella involontaria. La prima, relativa alle informazioni culturali; la seconda, all'emotività (cioè su cosa provi la persona in quel momento).
Concludendo, mi pongo una domanda:"Come osserviamo la Comunicazione Non Verbale?".
Faccio una premessa, la maggior parte dei segnali è universale però è importante sapere  che ogni individuo è unico. Anteposto ciò, dobbiamo calibrarci  sulla persona da osservare e tarare i nostri strumenti di rivelazione (occhi, olfatto, orecchie) sulla sua linea base  e da qui andremo a valutare le variazioni, tenendo presente che alcune caratteristiche somatiche possono essere tipiche della persona così come per quei gesti che ripete indipendentemente da ciò che pensa (abitudini non verbali).
È molto importante sviluppare una buona flessibilità percettiva nonché un buon livello di attenzione.
Abbiamo parlato di linea base ma da cosa è composta? Della linea base fanno parte la morfologia (caratteristiche fisiche della persona) e i segni del tempo (rughe, postura, lo stato di cura).
Le variazioni, invece? 
Sono tutto quello che ci dà informazioni sulle sensazioni e sui pensieri che il soggetto vive in quel preciso istante.
Molto simpatico sarà il notare che in chi parla, la Comunicazione Non Verbale anticiperà di circa un secondo cosa verrà detto e chi ascolta reagirà circa un secondo dopo aver ascoltato.
Ciro Di Palma - Sport Mental Coach -


mercoledì 3 marzo 2021

L'importanza della Comunicazione NON Verbale.

Lo studio delle espressioni e della comunicazione è fondamentale per conoscere meglio gli altri e noi stessi. L'obiettivo  però non è quello di fare i detective ma: d'interessarci agli altri, di migliorare  noi stessi e i processi d'interazione che ci vedono coinvolti. La CNV è uno degli strumenti più importanti a tale scopo. Aumentare i livelli d'attenzione verso chi ci sta difronte può fare la differenza. Conoscere i segnali del corpo e che lo stesso c'invia riveste un ruolo importante. Si parla spesso di ascolto attivo, l'esperienza ci ha portato a sostenere che gli organi d'ascolto sono quattro:

  1. Orecchie;
  2. Occhi;
  3. Corpo;
  4. Cuore.
Ascoltare solo con le orecchie ci può dire tutto ma non tutto. Dobbiamo imparare ad andare dentro e oltre ciò che si ascolta. Apprendere ad osservare l'altro e la sua comunicazione e sintonizzarci con il nostro corpo sulla frequenza del suo può aiutarci molto.

Ascoltare col cuore vuol dire creare una connessione da essere umano a essere umano, da anima a anima e per arrivare a ciò serve appunto ascoltare: con le orecchie, con gli occhi e col corpo.

E' molto importante conoscere anche la nostra CNV perchè se ci accorgiamo che stiamo dando dei messaggi accompagnatori che potrebbero essere intesi in diverso modo dal nostro interlocutore, dovremmo cambiarla. Della CNV prenderemo in considerazione oltre che alla parte involontaria, anche quella volontaria: gesti, postura, ecc. Dobbiamo far attenzione perchè certi movimenti potrebbero, col tempo, diventare propri della persona e quindi avere dei significati diversi.

Perchè studiare la studiare la CNV?

  • Per conoscere noi stessi, per migliorare l'efficacia, l'efficienza e l'eleganza comunicativa;
  • Per "capire" gli altri, naturalmente il capire è tra virgolette perchè significa: raccogliere informazioni in quel momento, su quella persona e in quel contesto;
  • Per diventare più strategici nella comunicazione, cioè riuscire ad andare nella direzione  degli obiettivi che ci poniamo volta per volta.

E' molto importante sempre tener conto del contesto e vedere l'insieme dei segnali.

La CNV dà dei segnali che possono:

Confermare un messaggio;

Contraddire un messaggio;

Sostituire un messaggio.

La Comunicazione Non Verbale ci veicola due informazioni che sono:

  1. I segnali rivelatori che ci danno informazioni non comunicate a voce cioè: rifiuto, tensione o gradimento. Allo stesso modo ci regalano anche delle microespressioni da indagare;
  2. I segnali di falso che non ci rivelano informazioni aggiuntive  ma evidenziano le incongruenze tra il verbale e il non verbale.

Il prossimo mese prenderemo in esame e nello specifico i vari tipi di segnali.

martedì 2 febbraio 2021

Le fasi del Coaching Strategico.


Il Modello Strategico prevede una casualità circolare che orienta l'indagine alla soluzione del problema nel presente in modo che di volta in volta possiamo scegliere la tecnica da usare. Questo tipo di approccio si chiede:"Come funziona?", poi osserva, analizza e indaga in maniera funzionale. E' un modello integrato quindi: Problem Oriented, Solution Oriented e Action Oriented. E' molto incline al problema e non parte  dalla teoria forte che per risolverlo bisogna andare per forza verso la soluzione di esso. Lo Strategico cerca di esplorare il più possibile il problema in modo da poter apportare dei cambiamenti su quel processo. Il criterio che usa è quello definito Ricerca - Intervento, per cui ogni piccola informazione che emerge, ogni minuscolo spostamento può indurre a dei cambiamenti.

Le fasi del Coaching Strategico sono quattro:

  • Valutazione. Si appura che il caso sia di competenza del Coach. Al contempo si comincia a creare relazione col coachee;
  1. Definizione dell'obiettivo o del problema; individuazione delle tentate soluzioni disfunzionali ed eccezioni positive. Sintesi, definizione, a volte ridefinizione  e accordo dell'obiettivo. Per questa fase è possibile impiegare anche diverse sessioni. Generalmente nelle prime due fasi impiegheremo più tempo rispetto a quello che poi utilizzeremo nell'ultima; questo è nella logica del partire dopo per arrivare prima anche se all'inizio sembrerà di essere quasi fermi. In chiave Strategica, in questo momento, apparentemente non stiamo muovendo alcun passo verso la soluzione però, già raccontare le difficoltà attraverso gli strumenti di comunicazione strategica e ridefinire alcuni aspetti, fa si che si creino dei piccoli interventi e nel crearli si  cambiamenti;
  2. Definizione e applicazione  della strategia. Questo è il momento in cui cominciamo a muovere il primo passo, proponendo al coachee delle attività che possano essere svolte in sessione oppure nell'intervallo tra esse. Qualche approccio punta a sbloccare durante la sessione risultando più sensazionalista (la tecnica illuminante, quella magica, fa sempre breccia), il Modello Strategico, invece  mira al piccolo cambiamento perchè attinge anche dal pensiero sistemico. Un cambiamento dirompente potrebbe far rispondere il sistema con una resistenza, invece noi vogliamo che la persona stessa viva il cambiamento, accorgendosi di esso dopo. Qualche volta il cliente dopo una sessione di coaching strategico va via con qualche dubbio però se quel dubbio lavora per un mese o per la distanza che intercorre tra le sessioni, potrebbe essere molto funzionale;
  3. Misurazione degli effetti della strategia adottata (piano d'azione e check), siccome non partiamo da una teoria forte non c'illudiamo che sicuramente funzioni, qualche volta gli effetti potrebbero anche essere negativi e ciò ci consentirà di agire diversamente;
  4. Chiusura dell'intervento e ridefinizione del cambiamento alla luce dei risultati raggiunti. In questa ultima fase si restituiranno le chiavi del cambiamento al coachee, lo si responsabilizzerà avendogli fornito anche degli strumenti, da cui attingere per il futuro. La fase 4 è la conferma che scrivevamo precedentemente: Prima cambiamo o accompagnamo il coachee a cambiare e solo dopo capiremo quello che è successo a differenza di altri approcci che cercano di capire per poi cambiare.

venerdì 1 gennaio 2021

Definiamo un OBIETTIVO.


Il primo giorno di gennaio è generalmente quello in cui: promesse, obiettivi e risoluzioni di problemi  fanno da sottofondo al trascorrere dei secondi...

Nel Modello di Problem Solving Strategico, il PROBLEMA e l'OBIETTIVO, sono due facce della stessa medaglia perchè, per risolvere un problema, dobbiamo sempre definire degli obiettivi, così come per raggiungere un obiettivo, dobbiamo risolvere dei problemi. 

Sembra facile ma tante volte non è così in quanto il coachee (il cliente) spesso, dell'obiettivo, ha un'idea fumosa, quasi una chimera che gli gira per la testa e il nostro primo step sarà proprio quello di andarlo a definire, dandogli un contorno e una forma. Non è sempre semplice e a volte non basta una sessione di coaching; infatti nel Modello Strategico, la fase d'indagine (che poi prevede anche l'individuazione delle tentate soluzioni disfunzionali e delle eccezioni positive) può durare diverso tempo ma questo va nella logica del partire dopo per arrivare prima.

Cosa significa definire un obiettivo?

La risposta ci viene data dall'acronimo SMART, un Metodo che non ho inventato io ma P. Drucker nel 1954 che serviva a controllare la validità e la fattibilità degli obiettivi. Questo negli anni è stato interpretato in diversi modi e conformato alla lingua italiana per cui ci sono diverse versioni. L'adattamento a cui faccio riferimento io (dopo averlo raffrontato ad altri) è quello che ho appreso alla scuola di Coaching e Formazione Fym cioè: S M A R T + .

Entriamo nel dettaglio:

  • S - Specifivo. Che non sia arbitrario. Sembra elementare ma non lo è, perchè talvolta il  peggior nemico del coachee è  proprio lui, che  presenterà delle resistenze a raggiungere certi obiettivi, mettendo in atto quello che in ambito psicologico sono definiti degli autosabotaggi. Avviene ciò perchè, a volte,  raggiungere un traguardo comporta un cambiamento che, se avvertito,
    fà uscire il coachee dalla sua zona di comfort. Oltre a Specifico, l'obiettivo deve essere anche Scritto, in modo da diventare una specie di contratto che il coachee stipula con se stesso;
  • M - Misurabile. Definito in termini di risultati osservabili oggettivamente (correre i 100m piani in 10" oppure aumentare il fatturato del 15%);
  • A - Accordato (condiviso);
  • R - Respons - Abile. Deve essere sotto la responsabilità del coachee ma che sia anche realistico e raggiungibile. Noi non gli garantiamo che il problema si risolva o che l'obiettivo si raggiunga ma che lavoreremo per farlo diventare abile)
  • T - Tempo. Che abbia una scadenza fissata, che sia definito nel tempo, raggiungibile ad una certa data;
  • + - Definito in positivo. Significa non solo avere la consapevolezza di ciò che non va o che non vogliamo più ma di sapere quello che vogliamo ottenere perchè il rischio che si potrebbe presentare è quello di girare a vuoto e far salire la frustrazione.

L'obiettivo racchiuso in questo perimetro ci permette di andare a lavorare  non su intenzioni velleitarie ma su qualcosa di concreto e oggettivo e quindi più facilmente raggiungibile. Ricordiamoci sempre, ed è importante, che anche tutto ciò non è garanzia assoluta di successo.