giovedì 13 gennaio 2022

"Ti guardo e ho capito!!!"... Si, forse, ma...

Prendo spunto dai discorsi nati dopo l'intervista che Romelu Lukaku ha concesso a Sky qualche giorno fa, nella quale il calciatore ha dichiarato la sua voglia di ritornare all'Inter, sua ex squadra e di essersi pentito dall'essere andato via nella maniera che i tifosi nerazzurri ben conoscono. In seguito a questo intervento televisivo si sono scatenati in diversi: sul web, sulla carta stampata, in tv, ecc... Tutti hanno cercato delle verità nascoste dietro la comunicazione verbale e non del belga, creando poi delle loro certezze più o meno reali e più o meno discutibili.

Non voglio entrare nello specifico di quello che si è visto nell'incontro tra il giornalista e l'attaccante ma preferisco parlare più in generale e a grandi linee della comunicazione  non verbale.

Il primo assioma della pragmatica della comunicazione umana, c'insegna che non si può non comunicare in quanto anche stando in silenzo, ogni gesto, ogni movimento è un atto comunicativo. Faccio un esempio: Una persona che difronte a noi, in treno, prenda il telefonino e inizi a giocare, non è che non comunichi, probabilmente ci sta dicendo che non ha voglia di farlo.

Il corpo nella maggior parte dei casi esprime sempre la verità ma sta noi riuscire a capire cosa indicano i segnali. Un fattore importante però è dire che non esistono segnali inequivocabili che indichino un qualcosa, per esempio:" Ha guardato in giù, allora non vuole il confronto o dice una bugia", "Mi sta fissando, racconta la verità". Leggendo Ekman possiamo vedere che uno stesso segnale può avere diversi significati. Una persona potrà dare, nello specifico dei segnali di paura  magari perchè ha timore o di non essere creduto oppure di essere scoperto, allora starà a noi far attenzione a non recepirli, elaborarli e spiegarli in un senso o nell'altro a seconda dei nostri convincimenti.
In tantissimi e ciò è accaduto anche dopo l'intervista al calciatore belga, interpretano i vari segnali del corpo commettendo un piccolo ma fondamentale errore: NON TENGONO CONTO DELLA LINEA BASE e cioè di tutti quei movimenti che sono propri della persona e che difficilmente possono risaltare all'occhio dalla visione di un singolo filmato o di una sola sessione di coaching.
Non dimentichiamo mai che il fulcro della comunicazione è la parola; i gesti, i movimenti del corpo ci ricordano solo che è anche utile concentrarsi  su di loro per una maggiore comprensione dell'insieme.
La comunicazione non verbale può avere diverse funzioni:
  • Rinforzare un messaggio, cioè quando tutti i canali della comunicazione (linguaggio verbale, paraverbale e del corpo) convergono;
  • Contraddire un messaggio, quando uno dei tre canali va in direzione diversa rispetto agli altri due;
  • Sostituire un messaggio, quando il canale verbale  è surrogato dal paraverbale e dai gesti.
Concludo facendovi immaginare il nostro corpo che disegna nello spazio quello che vuole dire... Questa è la comunicazione analogica.

Ciro Di Palma - Sport Mental Coach -

giovedì 4 novembre 2021

Le domande...


Una delle cose più importanti del mondo odierno è la comunicazione, allo stesso modo, in una sessione di coaching strategico, il comunicare e il come farlo sono i  pilastri del processo. Cosa ci sia alla base di questo procedimento non è una cosa astrusa, anzi... Provate a pensare a cosa possa essere, forza... E' semplicissimo a dirsi, un pò meno da mettere in pratica per ottenere dei risultati... Vi svelo l'arcano. LE DOMANDE. 

Il processo di convincimento più potente che un coach abbia a disposizione è semplicemente porre delle domande. Nei secoli, i quesiti hanno fatto in modo che ci evolvessimo, gli interrogativi  hanno portato a nuove scoperte. Una lettura semplicistica di ciò, farebbe affermare che avremmo  trovato la soluzione a tutti i casi di coaching, invece no, perchè le domande poste con certe modalità potrebbero anche non facilitare ma peggiorare in modo abnorme le cose. "Non sono le risposte a creare dei problemi ma sono le domande che le creano" (cit. Kant) ma sono le stesse domande però che portano alla soluzione. Nella quotidianità così come nelle sessioni di coaching, la qualità del rapporto è data anche dal tipo di domande e dal come vengono formulate. In un contesto del genere, anche il coach deve avere l'abilità di porre quesiti o magari di riformularli  nel caso in cui ricevesse una risposta che all'apparenza non gli fosse d'aiuto, al contempo facendo attenzione a non giudicarla. Un bravo Coach deve imparare a fare le domande con un certo criterio, con una determinata sequenza e forma fino a quando poi non gli diventerà spontaneo farlo. Gli interrogativi vanno posti strategicamente cioè devono avere un obiettivo da raggiungere. La distanza che intercorre tra la domanda e l'obiettivo è coperta dalla strategia. Le domande, sembrerà banale, devono essere poste in modo facile ma questo processo di semplificazione è difficile da compiersi perchè attraverso esso già si avvia un percorso di Problem Solving, quindi fare buone domande significa fare domande semplici, costruite bene e di facile comprensione. Ce ne sono di diversi tipi:

  • aperte. Sono quelle che lasciano al coachee ampio campo di risposta. Esempio: "Cos'è successo?"; "Cos'hai fatto per...?  Le domande aperte, generalmente vengono fatte all'inizio della sessione e servono anche per rompere il ghiaccio e creare relazione. 
  • chiuse. Sono quelle che ammettono come risposte solo: si o no. Esempio: "Ti sei allenato?", "Hai parlato col Mister?". Questo, è un tipo di domanda che non amo tanto perchè può mettere in difficoltà il coachee e può compromettere la relazione tra di noi.
  • alternativa di risposta. Sono quelle che in qualche modo avviano, in parte, il coachee verso la risposta pur lasciandogli la piena autonomia nel farlo. Esempio: "Quell'azione, ti capita di farla in allenamento o solo in partita?". "Protesti verso l'arbitro quando subisci fallo tu oppure anche quando sono i tuoi compagni di squadra a riceverli?". 
Lo comunicazione è come una danza tra domanda e risposta (cit. prof. Nardone). Io aggiungo che una danza armoniosa prevede passi  studiati che diventano facili, quindi domande semplici e ben strutturate

Ciro Di Palma - Sport Mental Coach -


venerdì 3 settembre 2021

Il Modello di Coaching che vince... (mah?)


E' trascorso ormai un mese dalla fine dei giochi olimpici e tutti adesso hanno scoperto il "Mental Coach Sportivo". Si potrebbe parlare per ore di questa figura ma preferisco invece argomentare tra le pieghe dei 
modelli di coaching che esistono. Premetto, NON ESISTE IL MODELLO VINCENTE ma è l'atleta o la squadra che raggiungendo il risultato lo definisce tale al momento. Vale anche la pena precisare che solo alcuni sono validati scientificamente (per esempio, SFERA e STRATEGICO) ed altri no (PNL). Probabilmente sarebbe più corretto parlare di approccio e non di modello perchè ogni coach tende a personalizzare un approccio facendolo diventare poi un suo modello. Dopo aver letto e studiato, mi sono accorto che gli approcci vengono molto influenzati dalla cultura del luogo in cui nascono. Quelli inglesi, per esempio sono più soft e più orientati verso il formulare delle domande; quelli americani, molto caratterizzati dalla centralità assoluta della motivazione, della volontà della persona e del "se vuoi, puoi!!!". Si vedrà, poi che non è sempre così, anche se alla quasi totalità degli atleti, dei managers e delle persone in generale, piace sentirselo dire ma anche ai coach farlo credere. Cosa può ancora influenzare un metodo? Sicuramente il coach stesso: la sua etica, le sue scelte, il suo modo di agire e di porsi con le persone ma anche il suo linguaggio verbale e non verbale, persino il suo idioma, si perchè alcuni giochi di parole sono validi ed hanno un certo appeal solo se usati nella lingua originale e difficilissimi da applicare se tradotti da altre. Nell'elenco che segue, ci sono diversi tipi di modelli di coaching:

    • A5;
    • O.R.D.E.R .:
    • G.R.O.W. ;
    • STRATEGICO;
    • S.F.E.R.A. ;
    • ONTOLOGICO;
    • UMANISTICO;
    • P.N.L. :
    • R.A.D.A.R. ;
    • G.R.O.W. Expanded;
... e ancora tanti altri se ci mettessimo a cercare... .
Come orientarsi in questo mare magnum di approcci? Molto semplice: leggere, informarsi, studiare. Banale? Forse ma è una delle poche soluzioni. E' difficile prendere una direzione perchè le varie scuole di coaching puntano a indirizzare l'aspirante coach unicamente verso di loro (un cliente in più). Naturalmente la differenza la fa la voglia della persona che vuole completare il proprio bagaglio di competenze per poi fare le sue valutazioni.
Fondamentalmente ma semplifico molto, di un modello bisognerebbe capire quale sia il protocollo e quali le sequenze logiche insite. Molto importante inoltre, sarebbe carpirne la flessibilità applicativa verso i casi ma anche verso i coachee al contempo valutandone la rigorosità metodologica. Un fattore da non sottovalutare e per me importante, è la gestione delle resistenze nei vari modelli (in taluni mancano proprio gli strumenti atti a farlo). Ricordando sempre che tante volte la logica non è sempre lineare e quindi dire non significa poi far agire, anche se il coachee è sembrato assolutamente concorde.
Allora, il modello vincente qual'è?
Semplicemente, in partenza, non esiste un modello vincente.



sabato 31 luglio 2021

Alta Performance e Picco di Prestazione... Quale delle due?

Sgombriamo subito la mente da strani pensieri. Nel mondo sportivo, senza un certo tipo di allenamento e cioè del ripetersi di certi movimenti, gesti, situazioni ma anche di strategie e metodologie da poter poi riportare in gara al momento giusto, sarà molto difficile raggiungere certi livelli e certe performance (ricordiamo anche che il riposo è parte integrante dell'allenamento).

Analizziamo la parola PERFORMANCE, essa deriva dal latino performare cioè dare una forma. "Otterremo una certa performance quando avremo dato una determinata forma alla nostra prestazione" (cit. Stefano Bartoli).

Un'alta prestazione, che è diversa dal picco di performance, può verificarsi raramente come colpo di fortuna; il nostro obiettivo quindi, sarà quello di alzare il livello in modo graduale e continuo in modo da acquisirla. Questo avverrà solo e soltanto con l'allenamento. Anche qui però c'è da fare alcuni distinguo perchè certe modalità di preparazione  possono anche non portare alla performance (overtraining).

Alta prestazione, picco di prestazione... Ma cosa sono in realtà? Per farla semplice ma facile non è, possiamo dire che un campionato si può vincere con un'alta performance e la singola partita con un picco di performance, tenendo sempre presente però che l'una non esclude l'altra.

Faccio un caso personale, tempo fa, da amatore, correvo le maratone e allenadomi in un certo modo riuscii, in qualche anno, a portare il mio tempo da 3h 00' a 2h 43', quindi ad avere un'alta performance (guardatela sempre nell'ottica di livello amatoriale), diverso il discorso invece nella 24h di corsa nella quale ebbi un picco di prestazione (217km) che mai prima avevo sfiorato e che mai più in seguito avrei ribadito. Accadde che per tutta una serie di motivazioni (qualificazione per i campionati mondiali di specialità, presenza dei vertici federali, tifosi al seguito e ottimo allenamento svolto) probabilmente ebbi una visione distorta e diversa del momento che mi fece andare oltre quello che presumibilmente veramente valevo nella realtà. Possiamo dire quindi che il picco di performance è solo di un momento, solo di una gara? Probabilmente, si e può definirsi un effetto.  Se all'epoca avessi avuto un Mental Coach Sportivo, probabilmente non avrei fatto tutta una serie di errori dopo, quando convinto di me, supportato dai tecnici e dall'opinione pubblica, nello sforzo di ripetere quella prestazione, continuai sempre ad incappare nelle stesse tentate soluzioni disfunzionali. Paradossalmente più mi allenavo e più inibivo la possibilità di avere un'alta performance, lasciando quei 217km come apice mai più raggiunto. 

Un atleta di livello ma anche una qualsiasi altra persona e in qualunque altro ambito, dovrà perciò puntare mai al picco di prestazione (se non in determinati momenti) bensì all'alta prestazione.

Questa avrà un effetto, verosimilmente più lungo nel tempo, la si potrà allenare e organizzare in base alle qualità del singolo e per qualità non intendo solo quelle atletico - fisiche ma anche relazionali, mentali ed emotive. Creerà essa stessa un equilibrio diventando una dinamica con la quale affrontare le gare e non sarà più una rottura di un omeostasi e/o un effetto a certe situazioni. Tutto ciò l'ho vissuto sulla mia pelle.

Se ti va, leggi anche questo altro articolo molto interessante:

La Performance, la Motivazione e il Coaching Strategico.


mercoledì 30 giugno 2021

Coaching o Formazione?


Prima di cominciare, è doveroso e rispettoso ringraziare Fym, Scuola Coaching e Formazione Formatori, dalla quale ho preso i tre schemi che vedrete in seguito.

In questi ultimi anni ho avuto la fortuna di confrontarmi con diverse persone che ruotano del "variegato" mondo del coaching: coach, coachee, giornalisti, sportivi, manager, dirigenti e tantissimi altri. Ho notato però una grandissima confusione su un tema: Coaching e Formazione. Si, perchè in gran parte di queste persone, è radicata l'idea che possano essere la stessa cosa invece sono due materie molto diverse tra loro. Non molto tempo fa un manager di una multinazionale mi disse:" Abbiamo dovuto licenziare un coach che, erogando la sua formazione, non ha motivato il gruppo e non ha raggiunto gli obiettivi che aveva dichiarato in fase di assunzione". Ascoltando queste parole, un brivido mi ha percorso la schiena perchè non condividevo, in linea di massima, quello che udivo.

Punto uno, il Coach non è un Formatore (può anche esserlo, se non  in qualche sporadico caso);

Punto due, il Coach non è un Motivatore (anche qui, lavorare sulla motivazione può essere però dopo aver fatto alcuni passi...);

Punto tre, un coach non dichiara gli obiettivi ("Vi farò raggiungere questi risultati...").

Per spiegare meglio il concetto, uso uno schema che la scuola di Coaching e Formazione formatori Fym ha creato all'uopo ed in relazione anche ad altre tipologie d'intervento.



In questo riquadro è stata fatta la distinzione: gruppo (one to few / one to many) - individuo (one to one) e apprendimento emotivo - apprendimento cognitivo. Nascono così quattro quadranti con cinque tipologie d'intervento, naturalmente tutte diverse tra di loro.

Balza subito all'occhio come la formazione venga rivolta a gruppi di persone più o meno numerosi (non escludendola in taluni rari casi anche per singoli) ma la cosa importante da tenere in considerazione è che siamo nel campo dell'apprendimento cognitivo, quindi il formatore deve spiegare e farlo bene inoltre deve far in modo che ciò che dice debba essere compreso. Quindi un Formatore ha una  responsabilità didattica, quella che un Coach non ha. La formazione poi agisce sullo sviluppo delle competenze (skill based) con un gruppo magari ridotto oppure sull'implementazione delle conoscenze (knoledge based) con un gruppo più numeroso, il Coaching, invece si occupa di performance.
Guardando sempre lo schema riportato si nota come il Coaching sia proprio agli antipodi della Formazione. E' direzionato all'apprendimento emotivo (Modello Strategico) cioè orientato al "sentire dentro" ed è rivolto al singolo o talvolta a piccoli gruppi. Possiamo quindi asserire che il Coach non spiega, il Formatore si. La responsabilità del Coach è più sul cambiamento che sull'apprendimento e queste cose generalmente non coincidono. A conferma di ciò anche il prof. Nardone asserisce che non sempre all'apprendimento corrisponda un cambiamento.
Il futuro, secondo me, va verso la creazione di una figura totale capace di gestire sia l'apprendimento che il cambiamento perchè il mutamento può anche avvenire attraverso l'acquisizione  oppure derivare da attività di coaching. Le due azioni, quindi, possono combinarsi ma sempre in direzione degli obiettivi di performance del coachee (sportivi, lavorativi o personali).
Concludo riportando due schemi che sintetizzano ciò che ho scritto, nei quali sono anche ben in vista i punti di forza e di debolezza di entrambe le figure.















lunedì 3 maggio 2021

Lavorare sull'AUTOSTIMA... Una boiata sesquipedale!!!

Leggendo, anche distrattamente, articoli che trattano di sport, di grandi traguardi raggiunti, ci siamo sicuramente imbattuti in una parolina magica... AUTOSTIMA. Tutti o quasi, chi più, chi meno, si sono abbeverati a questa fonte miracolosa che fa cogliere risultati sorprendenti e clamorosi. Ecco allora presentarsi al nostro cospetto quelli furbi, quelli scaltri, quelli che mercanteggiano aria, quelli che riescono a vendere il ghiaccio agli eschimesi, quelli che, appunto ci propongono di lavorare sull'autostima per migliorare le nostre performance fino a raggiungere anelati e ambiziosi  traguardi. Fiumi di parole ma per descrivere cosa? Per fare che? Secondo me, per descrivere il niente e per fare ancora meno; solo arricchire le loro tasche!!! Frequentando il mondo dello sport, prima da atleta, poi da istruttore e infine da mental coach, ho avuto modo d'incontrare e di confrontarmi con diversi personaggi (dirigenti, atleti, allenatori, giornalisti, editori, manager) ma quelli veramente al top, i numeri uno, MAI hanno dichiarato che, per arrivare dove sono, abbiano  lavorato nello specifico sull'autostima. Avete mai sentito Nadal affermare che per vincere i suoi tredici Rolland Garros abbia avuto bisogno di autostima?   E Hamilton per affermarsi nei suoi suoi sette mondiali di Formula 1?  E Valentino Rossi per tutta la sua straordinaria carriera? MAI!!! Chi parla di ciò è generalmente e evidentemente qualcuno che tenta di arrivare a un traguardo aggrappandosi a qualcosa che fa figo (AUTOSTIMA) facendo ascoltare alla gente delle belle e pompose parole magiche. Lavorare sull'autostima, per me, non significa niente. Chi lavora nel mondo della performance deve essere in grado di capire quali sono le strutture, quindi le dinamiche e quali sono gli effetti  da queste generati. L'autostima è semplicemente un effetto e lavorare su ciò non produce alcun  risultato anzi diventa una chimera, un obiettivo irragiungibile perchè è un processo senza fine. Non si arriva ad ottenerla e poi ci si ferma, è una continua evoluzione, appunto è un effetto; quindi non ragioniamo in termini di autostima ma mutiamo il concetto in:"Cosa posso fare per migliorarmi?". Cominciamo così a lavorare su noi stessi, a coltivare le nostre risorse, il che significa allenare a sviluppare il talento che abbiamo, a sbloccare quelle abilità che si sono arrestate, studiare, leggere e fare esperienza. Seguendo questa rotta, alimentando questo modus operandi, automaticamente si genererà  autostima e nel momento in cui l'avremo non ci chiederemo più se ne siamo dotati o meno. Ho provato ad inserire in un motore di ricerca la parolina in questione, in un attimo è venuto fuori il circo equestre... "Come aumentare l'autostima", "Le regole  per accrescere l'autostima", "I modi per avere più fiducia in se stessi", alla lettura di tutto ciò sono rimasto letteralmente basito (ripeto, questa è la mia personale visione dell'argomento). Il mio pensiero è che lavorarci su non significhi generarla anzi potrebbe addirittura divenire un grande limite e creare scoramento per il semplice motivo che se non si raggiungesse il risultato sperato, l'atleta crederebbe di non esserne in possesso o di non essere capace andando poi ad avviare un corto circuito.  Chi invece avrà fatto le cose in maniera diversa invece penserà solo a come potersi  migliore quotidianamente (toh, eccola qui l'autostima). Mi piace ricordare che quando un atleta o un qualsiasi performer è  "nella prestazione", non è nella sua forma mentis valutare al momento la propria autostima ma, i quegli attimi penserà solo:"Mi sono allenato, sono pronto? Allora faccio del mio meglio!!!" . Una volta fatto il suo meglio, proverà in futuro ancora a incrementare la sua performance. NON E' L'AUTOSTIMA CHE FA PERFORMARE MEGLIO MA E' IL PERFORMARE MEGLIO CHE GENERA AUTOSTIMA e chi raggiunge certi risultati non dirà mai che ne è dotato perchè è focalizzato al miglioramento continuo. L'AUTOSTIMA NON E' LA CAUSA DEL BUON RISULTATO MA E' SEMPLICEMENTE L'EFFETTO e noi andremo a lavorare, in primis su quello che potrà determinare l'esito di un evento.

domenica 4 aprile 2021

Dentro la Comunicazione Non Verbale

Continuando il discorso intrapreso nell'ultimo articolo, mi soffermerò su alcune particolarità della Comunicazione e in particolare di quella Non Verbale.
 L'efficacia di un messaggio è influenzata, in percentuali diverse, dai tre canali della comunicazione:
  • 7% verbale, il contenuto nudo e crudo, la trascrizione fedele di ciò che si dice, senza punteggiatura;
  • 38% paraverbale, (para, significa informo) tutto quello che è intorno alle parole: volume , intensità, timbro, pause, ecc.;
  • 55% linguaggio del corpo, quello che vedono gli occhi.
Paraverbale e linguaggio del corpo compongono il non verbale. Una precisazione importante, le percentuali non sono il quanto comunichiamo attraverso i canali ma la loro influenza all'interno della comunicazione; naturalmente nel discorso deve essere presente un contenuto emotivo.
Se voglio avere una comunicazione efficace, devo fare in modo che il paraverbale e il linguaggio del corpo vadano nella stessa direzione della comunicazione verbale.
Non si può non comunicare (primo assioma della comunicazione - Paul Watzlawick, scuola di Palo Alto, California), ogni gesto è un atto di comunicazione interna o esterna. Ogni comportamento comunica qualcosa dal momento in cui non esiste un non comportamento;
Il corpo esprime (quasi) sempre la verità, dipende da noi riuscire ad osservarla o meno. Il fatto che esistano dei segnali del corpo non basta, la cosa importante è identificarli. Ho messo tra parentesi il "quasi" perché possono essere presenti dei segnali che col tempo sono entrati a fare parte della linea base della persona e quindi presenti sempre in tutti i discorsi, questo potrebbe essere fuorviante;
La Comunicazione Non Verbale è analogica. Significa che certi segnali sono quelli che analogicamente rappresentano un qualcosa. Esempio, una persona che mette un libro, un  quaderno o quant'altro tra le braccia per riparare il petto o altri punti vulnerabili del corpo, tecnicamente chiusura analogica. Questo non significa comunque in assoluto chiusura e poi ammesso che lo fosse, ciò non implica che non si possa trattare con una persona "chiusa". 
I segnali del corpo col tempo si evolvono perché la persona che da piccola reagiva in un modo, crescendo avrà più "armi" per dissimulare.
Fattori importantissimi per come leggere la Comunicazione non Verbale sono: il tener conto del contesto in cui essa avviene, valutare l'insieme dei segnali e la coerenza (allineamento tra verbale e non verbale).
La Comunicazione Non Verbale e i segnali che ci dà possono avere degli effetti oppure degli obiettivi:
  1. Rinforzare un messaggio, Non verbale e Verbale sono congruenti;
  2. Contraddire un messaggio, Non Verbale e Verbale sono incongruenti;
  3. Sostituire un messaggio, Non verbale presente e Verbale assente.
Ci sono altri elementi che la Comunicazione Non Verbale potrebbe fornire, sono i segnali rivelatori e quelli di falso.
  • Segnali di rivelatori di sensazioni (rifiuto, tensione o gradimento) oppure di emozioni (microespressioni);
  • Segnali di falso, quando notiamo questi messaggi non è sempre vero che l'altro stia mentendo.
Esistono due tipologie di Comunicazione, quella volontaria e quella involontaria. La prima, relativa alle informazioni culturali; la seconda, all'emotività (cioè su cosa provi la persona in quel momento).
Concludendo, mi pongo una domanda:"Come osserviamo la Comunicazione Non Verbale?".
Faccio una premessa, la maggior parte dei segnali è universale però è importante sapere  che ogni individuo è unico. Anteposto ciò, dobbiamo calibrarci  sulla persona da osservare e tarare i nostri strumenti di rivelazione (occhi, olfatto, orecchie) sulla sua linea base  e da qui andremo a valutare le variazioni, tenendo presente che alcune caratteristiche somatiche possono essere tipiche della persona così come per quei gesti che ripete indipendentemente da ciò che pensa (abitudini non verbali).
È molto importante sviluppare una buona flessibilità percettiva nonché un buon livello di attenzione.
Abbiamo parlato di linea base ma da cosa è composta? Della linea base fanno parte la morfologia (caratteristiche fisiche della persona) e i segni del tempo (rughe, postura, lo stato di cura).
Le variazioni, invece? 
Sono tutto quello che ci dà informazioni sulle sensazioni e sui pensieri che il soggetto vive in quel preciso istante.
Molto simpatico sarà il notare che in chi parla, la Comunicazione Non Verbale anticiperà di circa un secondo cosa verrà detto e chi ascolta reagirà circa un secondo dopo aver ascoltato.
Ciro Di Palma - Sport Mental Coach -