mercoledì 9 marzo 2022

Ho voglia però non cambio... Perchè?

Quando le cose non vanno bene, una delle prime azioni che una persona agisce, è riempirsi la testa di buoni propositi, sperando che la buona volontà possa poi bastare a superare il momento particolare. Con alcuni il gioco funziona ma con tanti, molti, troppi, così non avviene perchè entrano in gioco diverse variabili che fanno crollare il castello. Innumerevoli volte tutte queste mosse vengono messe in atto con l'idea che si stia operando nella maniera più corretta in assoluto. Facciamo due esempi, un allenatore che negli ultimi anni ha sempre vinto o lottato per farlo ma ultimamente fa fatica e la sua squadra o il suo atleta non riescono a performare a certi livelli. Inizia col pensare:"Magari cambio schema di gioco o gli allenamenti...". Ok, così farà. L'azione però, nell'immediato,  non porta i risultati auspicati e riprende i vecchi sistemi ritornando, dopo un pò  al punto di partenza. Lui ricambia ancora, pochissimi risultati sul breve e ancora daccapo fin quando dimentica l'idea del voler fare le cose in modo differente. L'altro esempio è un atleta che ha una gara importante a cui partecipare, ha il suo programma di allenamento ma ha poca voglia di svolgerlo e procrastina sempre le sedute con l'idea di:"Poi domani recupero anche quello che non ho fatto oggi...". Il tempo passa e si chiede del perchè non svolga bene le attività. Da una lettura veloce e semplicistica si potrebbe dedurre (magari sbagliando) che l'allenatore sia una persona che nella realtà non abbia voglia di cambiare, che manchi di volontà e che l'atleta sia una persona senza motivazione e che rinvii sempre "i compiti" da fare. Quello che accade nella realtà è che, per entrambi, entrano in gioco alcuni aspetti della mente che sono ingannatori (ciò non ha nulla a che fare con l'intelligenza della persone in oggetto). Da Coach, dovrò riuscire anche a vedere oltre la mancanza di volonta e/o di motivazione e potrei agire in modo non razionale, evitando la logica della linearità per cui:" Se io parlo, tu ascolti e se ascolti, metti in pratica...". Perchè l'allenatore e l'atleta agiscono in quel modo?  Perchè ci sono tanti elementi che possono interferire col cambiamento, tra i quali:
  • Un sovraccarico di stimoli per la mente;
  • Pochi dati a disposizione per elaborare delle scelte o mettere in pratica delle azioni;
  • La premura;
  • Una stima che la mente fa per quanto riguarda le conseguenze o le situazioni sulla base delle proprie (e ripeto proprie) conoscenze;
  • Un processo di sintesi che riconosca nella frequenza di certi comportamenti o in azioni già compiute, le mosse da mettere in atto. 
Facciamo attenzione però che specialmente gli ultimi due punti, tante volte vengono costruiti dal cervello stesso che poi li interpreta a come vuole oppure nel modo a lui più congeniale, talvolta sbagliando.
Tante volte, la volontà della mente si lascia condizionare dal momento particolare che l'allenatore o l'atleta stanno vivendo, quindi guardano in una sola direzione e per lo più offuscata, starà quindi al Coach offrirgli degli altri punti di vista. Da non sottovalutare anche l'eccesso di fiducia nelle proprie capacità che una persona ha nella messa in pratica del cambiamento, qui il rischio è quello che si sottovalutino alcuni fattori, all'apparenza minori ma che possano rivelarsi cardini. Anche la zona di confort può interferire con la voglia di cambiamento facendo avere alle persone una  visione distorta della realtà. Da Coach, un buon lavoro di ricerca e di piccole azioni da far compiere per generare più o meno ma anche no dei cambiamenti può aiutare nell'impresa di venire a capo di certe situazioni.

Ciro Di Palma - Sport Mental Coach - 



lunedì 31 gennaio 2022

Albert Mehrabian, in tanti ne parlano, in pochi lo "approfondiscono".

Dall'ultimo mio scritto "Ti guardo e ho capito!!!" ... Si, ma, forse..., ho ricevuto tanti messaggi da parte di molte persone che mi hanno accusato di non aver tenuto conto, per quanto riguarda la Comunicazione Non Verbale, dello studio di Albert Mehrabian, il quale (scrivono loro), afferma che la comunicazione è formata dal: 55% dal linguaggio del corpo, 38% dal paraverbale e 7% dal verbale.


Purtroppo, devo dire a questi amici, che il lavoro dello psicologo statunitense è stato divulgato e riportato male. Semplicemente perchè lo studioso circa cinquant'anni fa, dimostrò che era l'EFFICACIA e non la quantità della comunicazione ad essere influenzata dai tre canali e nelle percentuali a cui prima facevano riferimento. Faccio un semplice esempio per smontare l'errore dei lettori che mi hanno scritto. Se facessi un discorso di cui solo il 7% formato da parole e il restante 93% da gesti e movimenti, sfido chiunque a capire di cosa abbia parlato in quel 93%... 

Per capire  meglio, riassumo in questi punti:

  • Le percentuali non sono relative alla quantità di informazioni;
  • Le percentuali non sono relative alla qualità delle informazioni;
  • Le percentuali indicano i diversi livelli di influenza sull'efficacia del messaggio;
  • Fare attenzione però che le percentuali sono valide se uno dei tre canali dovesse essere incongruente rispetto agli altri;
  • Le percentuali sono valide solo sulle comunicazioni a valenza emotiva.
(Questi punti riassuntivi sono tratti da schede Fym, scuola coaching e formazione).

Spero di essere stato chiaro del perchè non abbia citato lo studioso a stelle e strisce nello scorso articolo.

Ciro Di Palma - Sport Mental Coach -

giovedì 13 gennaio 2022

"Ti guardo e ho capito!!!"... Si, forse, ma...

Prendo spunto dai discorsi nati dopo l'intervista che Romelu Lukaku ha concesso a Sky qualche giorno fa, nella quale il calciatore ha dichiarato la sua voglia di ritornare all'Inter, sua ex squadra e di essersi pentito dall'essere andato via nella maniera che i tifosi nerazzurri ben conoscono. In seguito a questo intervento televisivo si sono scatenati in diversi: sul web, sulla carta stampata, in tv, ecc... Tutti hanno cercato delle verità nascoste dietro la comunicazione verbale e non del belga, creando poi delle loro certezze più o meno reali e più o meno discutibili.

Non voglio entrare nello specifico di quello che si è visto nell'incontro tra il giornalista e l'attaccante ma preferisco parlare più in generale e a grandi linee della comunicazione  non verbale.

Il primo assioma della pragmatica della comunicazione umana, c'insegna che non si può non comunicare in quanto anche stando in silenzo, ogni gesto, ogni movimento è un atto comunicativo. Faccio un esempio: Una persona che difronte a noi, in treno, prenda il telefonino e inizi a giocare, non è che non comunichi, probabilmente ci sta dicendo che non ha voglia di farlo.

Il corpo nella maggior parte dei casi esprime sempre la verità ma sta noi riuscire a capire cosa indicano i segnali. Un fattore importante però è dire che non esistono segnali inequivocabili che indichino un qualcosa, per esempio:" Ha guardato in giù, allora non vuole il confronto o dice una bugia", "Mi sta fissando, racconta la verità". Leggendo Ekman possiamo vedere che uno stesso segnale può avere diversi significati. Una persona potrà dare, nello specifico dei segnali di paura  magari perchè ha timore o di non essere creduto oppure di essere scoperto, allora starà a noi far attenzione a non recepirli, elaborarli e spiegarli in un senso o nell'altro a seconda dei nostri convincimenti.
In tantissimi e ciò è accaduto anche dopo l'intervista al calciatore belga, interpretano i vari segnali del corpo commettendo un piccolo ma fondamentale errore: NON TENGONO CONTO DELLA LINEA BASE e cioè di tutti quei movimenti che sono propri della persona e che difficilmente possono risaltare all'occhio dalla visione di un singolo filmato o di una sola sessione di coaching.
Non dimentichiamo mai che il fulcro della comunicazione è la parola; i gesti, i movimenti del corpo ci ricordano solo che è anche utile concentrarsi  su di loro per una maggiore comprensione dell'insieme.
La comunicazione non verbale può avere diverse funzioni:
  • Rinforzare un messaggio, cioè quando tutti i canali della comunicazione (linguaggio verbale, paraverbale e del corpo) convergono;
  • Contraddire un messaggio, quando uno dei tre canali va in direzione diversa rispetto agli altri due;
  • Sostituire un messaggio, quando il canale verbale  è surrogato dal paraverbale e dai gesti.
Concludo facendovi immaginare il nostro corpo che disegna nello spazio quello che vuole dire... Questa è la comunicazione analogica.

Ciro Di Palma - Sport Mental Coach -

giovedì 4 novembre 2021

Le domande...


Una delle cose più importanti del mondo odierno è la comunicazione, allo stesso modo, in una sessione di coaching strategico, il comunicare e il come farlo sono i  pilastri del processo. Cosa ci sia alla base di questo procedimento non è una cosa astrusa, anzi... Provate a pensare a cosa possa essere, forza... E' semplicissimo a dirsi, un pò meno da mettere in pratica per ottenere dei risultati... Vi svelo l'arcano. LE DOMANDE. 

Il processo di convincimento più potente che un coach abbia a disposizione è semplicemente porre delle domande. Nei secoli, i quesiti hanno fatto in modo che ci evolvessimo, gli interrogativi  hanno portato a nuove scoperte. Una lettura semplicistica di ciò, farebbe affermare che avremmo  trovato la soluzione a tutti i casi di coaching, invece no, perchè le domande poste con certe modalità potrebbero anche non facilitare ma peggiorare in modo abnorme le cose. "Non sono le risposte a creare dei problemi ma sono le domande che le creano" (cit. Kant) ma sono le stesse domande però che portano alla soluzione. Nella quotidianità così come nelle sessioni di coaching, la qualità del rapporto è data anche dal tipo di domande e dal come vengono formulate. In un contesto del genere, anche il coach deve avere l'abilità di porre quesiti o magari di riformularli  nel caso in cui ricevesse una risposta che all'apparenza non gli fosse d'aiuto, al contempo facendo attenzione a non giudicarla. Un bravo Coach deve imparare a fare le domande con un certo criterio, con una determinata sequenza e forma fino a quando poi non gli diventerà spontaneo farlo. Gli interrogativi vanno posti strategicamente cioè devono avere un obiettivo da raggiungere. La distanza che intercorre tra la domanda e l'obiettivo è coperta dalla strategia. Le domande, sembrerà banale, devono essere poste in modo facile ma questo processo di semplificazione è difficile da compiersi perchè attraverso esso già si avvia un percorso di Problem Solving, quindi fare buone domande significa fare domande semplici, costruite bene e di facile comprensione. Ce ne sono di diversi tipi:

  • aperte. Sono quelle che lasciano al coachee ampio campo di risposta. Esempio: "Cos'è successo?"; "Cos'hai fatto per...?  Le domande aperte, generalmente vengono fatte all'inizio della sessione e servono anche per rompere il ghiaccio e creare relazione. 
  • chiuse. Sono quelle che ammettono come risposte solo: si o no. Esempio: "Ti sei allenato?", "Hai parlato col Mister?". Questo, è un tipo di domanda che non amo tanto perchè può mettere in difficoltà il coachee e può compromettere la relazione tra di noi.
  • alternativa di risposta. Sono quelle che in qualche modo avviano, in parte, il coachee verso la risposta pur lasciandogli la piena autonomia nel farlo. Esempio: "Quell'azione, ti capita di farla in allenamento o solo in partita?". "Protesti verso l'arbitro quando subisci fallo tu oppure anche quando sono i tuoi compagni di squadra a riceverli?". 
Lo comunicazione è come una danza tra domanda e risposta (cit. prof. Nardone). Io aggiungo che una danza armoniosa prevede passi  studiati che diventano facili, quindi domande semplici e ben strutturate

Ciro Di Palma - Sport Mental Coach -


venerdì 3 settembre 2021

Il Modello di Coaching che vince... (mah?)


E' trascorso ormai un mese dalla fine dei giochi olimpici e tutti adesso hanno scoperto il "Mental Coach Sportivo". Si potrebbe parlare per ore di questa figura ma preferisco invece argomentare tra le pieghe dei 
modelli di coaching che esistono. Premetto, NON ESISTE IL MODELLO VINCENTE ma è l'atleta o la squadra che raggiungendo il risultato lo definisce tale al momento. Vale anche la pena precisare che solo alcuni sono validati scientificamente (per esempio, SFERA e STRATEGICO) ed altri no (PNL). Probabilmente sarebbe più corretto parlare di approccio e non di modello perchè ogni coach tende a personalizzare un approccio facendolo diventare poi un suo modello. Dopo aver letto e studiato, mi sono accorto che gli approcci vengono molto influenzati dalla cultura del luogo in cui nascono. Quelli inglesi, per esempio sono più soft e più orientati verso il formulare delle domande; quelli americani, molto caratterizzati dalla centralità assoluta della motivazione, della volontà della persona e del "se vuoi, puoi!!!". Si vedrà, poi che non è sempre così, anche se alla quasi totalità degli atleti, dei managers e delle persone in generale, piace sentirselo dire ma anche ai coach farlo credere. Cosa può ancora influenzare un metodo? Sicuramente il coach stesso: la sua etica, le sue scelte, il suo modo di agire e di porsi con le persone ma anche il suo linguaggio verbale e non verbale, persino il suo idioma, si perchè alcuni giochi di parole sono validi ed hanno un certo appeal solo se usati nella lingua originale e difficilissimi da applicare se tradotti da altre. Nell'elenco che segue, ci sono diversi tipi di modelli di coaching:

    • A5;
    • O.R.D.E.R .:
    • G.R.O.W. ;
    • STRATEGICO;
    • S.F.E.R.A. ;
    • ONTOLOGICO;
    • UMANISTICO;
    • P.N.L. :
    • R.A.D.A.R. ;
    • G.R.O.W. Expanded;
... e ancora tanti altri se ci mettessimo a cercare... .
Come orientarsi in questo mare magnum di approcci? Molto semplice: leggere, informarsi, studiare. Banale? Forse ma è una delle poche soluzioni. E' difficile prendere una direzione perchè le varie scuole di coaching puntano a indirizzare l'aspirante coach unicamente verso di loro (un cliente in più). Naturalmente la differenza la fa la voglia della persona che vuole completare il proprio bagaglio di competenze per poi fare le sue valutazioni.
Fondamentalmente ma semplifico molto, di un modello bisognerebbe capire quale sia il protocollo e quali le sequenze logiche insite. Molto importante inoltre, sarebbe carpirne la flessibilità applicativa verso i casi ma anche verso i coachee al contempo valutandone la rigorosità metodologica. Un fattore da non sottovalutare e per me importante, è la gestione delle resistenze nei vari modelli (in taluni mancano proprio gli strumenti atti a farlo). Ricordando sempre che tante volte la logica non è sempre lineare e quindi dire non significa poi far agire, anche se il coachee è sembrato assolutamente concorde.
Allora, il modello vincente qual'è?
Semplicemente, in partenza, non esiste un modello vincente.



sabato 31 luglio 2021

Alta Performance e Picco di Prestazione... Quale delle due?

Sgombriamo subito la mente da strani pensieri. Nel mondo sportivo, senza un certo tipo di allenamento e cioè del ripetersi di certi movimenti, gesti, situazioni ma anche di strategie e metodologie da poter poi riportare in gara al momento giusto, sarà molto difficile raggiungere certi livelli e certe performance (ricordiamo anche che il riposo è parte integrante dell'allenamento).

Analizziamo la parola PERFORMANCE, essa deriva dal latino performare cioè dare una forma. "Otterremo una certa performance quando avremo dato una determinata forma alla nostra prestazione" (cit. Stefano Bartoli).

Un'alta prestazione, che è diversa dal picco di performance, può verificarsi raramente come colpo di fortuna; il nostro obiettivo quindi, sarà quello di alzare il livello in modo graduale e continuo in modo da acquisirla. Questo avverrà solo e soltanto con l'allenamento. Anche qui però c'è da fare alcuni distinguo perchè certe modalità di preparazione  possono anche non portare alla performance (overtraining).

Alta prestazione, picco di prestazione... Ma cosa sono in realtà? Per farla semplice ma facile non è, possiamo dire che un campionato si può vincere con un'alta performance e la singola partita con un picco di performance, tenendo sempre presente però che l'una non esclude l'altra.

Faccio un caso personale, tempo fa, da amatore, correvo le maratone e allenadomi in un certo modo riuscii, in qualche anno, a portare il mio tempo da 3h 00' a 2h 43', quindi ad avere un'alta performance (guardatela sempre nell'ottica di livello amatoriale), diverso il discorso invece nella 24h di corsa nella quale ebbi un picco di prestazione (217km) che mai prima avevo sfiorato e che mai più in seguito avrei ribadito. Accadde che per tutta una serie di motivazioni (qualificazione per i campionati mondiali di specialità, presenza dei vertici federali, tifosi al seguito e ottimo allenamento svolto) probabilmente ebbi una visione distorta e diversa del momento che mi fece andare oltre quello che presumibilmente veramente valevo nella realtà. Possiamo dire quindi che il picco di performance è solo di un momento, solo di una gara? Probabilmente, si e può definirsi un effetto.  Se all'epoca avessi avuto un Mental Coach Sportivo, probabilmente non avrei fatto tutta una serie di errori dopo, quando convinto di me, supportato dai tecnici e dall'opinione pubblica, nello sforzo di ripetere quella prestazione, continuai sempre ad incappare nelle stesse tentate soluzioni disfunzionali. Paradossalmente più mi allenavo e più inibivo la possibilità di avere un'alta performance, lasciando quei 217km come apice mai più raggiunto. 

Un atleta di livello ma anche una qualsiasi altra persona e in qualunque altro ambito, dovrà perciò puntare mai al picco di prestazione (se non in determinati momenti) bensì all'alta prestazione.

Questa avrà un effetto, verosimilmente più lungo nel tempo, la si potrà allenare e organizzare in base alle qualità del singolo e per qualità non intendo solo quelle atletico - fisiche ma anche relazionali, mentali ed emotive. Creerà essa stessa un equilibrio diventando una dinamica con la quale affrontare le gare e non sarà più una rottura di un omeostasi e/o un effetto a certe situazioni. Tutto ciò l'ho vissuto sulla mia pelle.

Se ti va, leggi anche questo altro articolo molto interessante:

La Performance, la Motivazione e il Coaching Strategico.


mercoledì 30 giugno 2021

Coaching o Formazione?


Prima di cominciare, è doveroso e rispettoso ringraziare Fym, Scuola Coaching e Formazione Formatori, dalla quale ho preso i tre schemi che vedrete in seguito.

In questi ultimi anni ho avuto la fortuna di confrontarmi con diverse persone che ruotano del "variegato" mondo del coaching: coach, coachee, giornalisti, sportivi, manager, dirigenti e tantissimi altri. Ho notato però una grandissima confusione su un tema: Coaching e Formazione. Si, perchè in gran parte di queste persone, è radicata l'idea che possano essere la stessa cosa invece sono due materie molto diverse tra loro. Non molto tempo fa un manager di una multinazionale mi disse:" Abbiamo dovuto licenziare un coach che, erogando la sua formazione, non ha motivato il gruppo e non ha raggiunto gli obiettivi che aveva dichiarato in fase di assunzione". Ascoltando queste parole, un brivido mi ha percorso la schiena perchè non condividevo, in linea di massima, quello che udivo.

Punto uno, il Coach non è un Formatore (può anche esserlo, se non  in qualche sporadico caso);

Punto due, il Coach non è un Motivatore (anche qui, lavorare sulla motivazione può essere però dopo aver fatto alcuni passi...);

Punto tre, un coach non dichiara gli obiettivi ("Vi farò raggiungere questi risultati...").

Per spiegare meglio il concetto, uso uno schema che la scuola di Coaching e Formazione formatori Fym ha creato all'uopo ed in relazione anche ad altre tipologie d'intervento.



In questo riquadro è stata fatta la distinzione: gruppo (one to few / one to many) - individuo (one to one) e apprendimento emotivo - apprendimento cognitivo. Nascono così quattro quadranti con cinque tipologie d'intervento, naturalmente tutte diverse tra di loro.

Balza subito all'occhio come la formazione venga rivolta a gruppi di persone più o meno numerosi (non escludendola in taluni rari casi anche per singoli) ma la cosa importante da tenere in considerazione è che siamo nel campo dell'apprendimento cognitivo, quindi il formatore deve spiegare e farlo bene inoltre deve far in modo che ciò che dice debba essere compreso. Quindi un Formatore ha una  responsabilità didattica, quella che un Coach non ha. La formazione poi agisce sullo sviluppo delle competenze (skill based) con un gruppo magari ridotto oppure sull'implementazione delle conoscenze (knoledge based) con un gruppo più numeroso, il Coaching, invece si occupa di performance.
Guardando sempre lo schema riportato si nota come il Coaching sia proprio agli antipodi della Formazione. E' direzionato all'apprendimento emotivo (Modello Strategico) cioè orientato al "sentire dentro" ed è rivolto al singolo o talvolta a piccoli gruppi. Possiamo quindi asserire che il Coach non spiega, il Formatore si. La responsabilità del Coach è più sul cambiamento che sull'apprendimento e queste cose generalmente non coincidono. A conferma di ciò anche il prof. Nardone asserisce che non sempre all'apprendimento corrisponda un cambiamento.
Il futuro, secondo me, va verso la creazione di una figura totale capace di gestire sia l'apprendimento che il cambiamento perchè il mutamento può anche avvenire attraverso l'acquisizione  oppure derivare da attività di coaching. Le due azioni, quindi, possono combinarsi ma sempre in direzione degli obiettivi di performance del coachee (sportivi, lavorativi o personali).
Concludo riportando due schemi che sintetizzano ciò che ho scritto, nei quali sono anche ben in vista i punti di forza e di debolezza di entrambe le figure.